Al di fuori dell’Italia, da sempre l’interesse e la considerazione per l’organo, questo meraviglioso strumento che è il più complesso fra tutti gli strumenti musicali mai inventati, è veramente notevole. Ma ciò che oggi mi preme sottolineare è un fenomeno abbastanza recente: il crescente interesse per l’organaria italiana antica e per il repertorio organistico italiano. Questo interesse sta aumentando in modo esponenziale, dagli Stati Uniti all’estremo oriente, passando dall’Australia e dal nord Europa. Lo possiamo verificare dai vari indizi: i numerosi viaggi di studio per organisti e appassionati che in estate girano in lungo e in largo il nostro paese per vedere e provare organi antichi. Lo testimoniano anche le decine di allievi giapponesi che ogni anno vengono a studiare all’Accademia d’organo di Pistoia. In campo organario, si registrano i tentativi fatti da valenti organari stranieri, in USA e in altri paesi, di costruire strumenti basandosi su modelli storici italiani. Un esempio recentissimo è l’organo costruito dalla nota ditta statunitense Fisk nella Cattedrale di Cincinnati, Ohio, ispirato all’estetica fonica dell’organo Antegnati di Almenno San Salvatore.
In Italia l’attenzione per l’organo è ancora marginale, ma proprio per questo è importante sottolineare gli esempi virtuosi, come quello della Basilica della Salute, dove questa attenzione è già una realtà. Il restauro dell’organo e la pubblicazione che oggi presentiamo costituiscono infatti esempi di interesse e sensibilità per questo patrimonio artistico e culturale molto particolare. Ma l’attenzione per lo strumento e la sua valorizzazione è affermata alla Salute soprattutto dall’uso giornaliero che si fa dello strumento per le funzioni religiose e dalla presenza di una organista professionista titolare.
Come tributo all’arte organaria veneziana, ho accettato volentieri di scrivere sul restauro dell’organo della Basilica della Salute. Alcune ragioni mi hanno spinto a farlo:
1. Il valore dello strumento. Si tratta di uno strumento importante, di grandi dimensioni per l’epoca. E singolare, perché Dacci ha cercato con quest’opera di introdurre con molto coraggio qualche elemento di novità rispetto alla prassi ben consolidata dell’organaria veneziana settecentesca di Nacchini e Callido. Uno schema così consolidato e impermeabile ai mutamenti da far dire al famoso contemporaneo organaro lombardo Giuseppe II Serassi, che pur lodava la qualità costruttiva degli organi di Gaetano Callido, “veduto un organo qualunque di Callido, tutti gli altri sono simile (sic) e copie eguali di Nacchini….” In un ambiente del genere, qualsiasi cambiamento rispetto agli schemi tradizionali richiedeva sicuramente coraggio e doveva essere visto almeno con sospetto.
2. La rarità dello strumento. Poco si conosce, o si conosceva della prassi costruttiva di Dacci, perché il costruttore non ha lasciato che poche tracce della sua opera. E’ quindi particolarmente utile documentare, almeno a grandi linee, lo stile costruttivo di questo autore veneziano.
3. Il restauro costituisce una occasione irripetibile per analizzare a fondo uno strumento complesso qual’è l’organo. Non vi è modo di compiere una analisi approfondita sul manufatto se non avendo a disposizione, perfettamente visibili, tutti i suoi elementi. Il restauro ci ha fornito questa occasione e ci ha dato modo di documentare e fissare a futura memoria le scoperte fatte e il lavoro compiuto.
Un esempio di quanto sia importante documentare viene proprio dalla pubblicazione del 1977 nella prestigiosa rivista L’Organo, delle ricerche d’archivio condotte da Gastone Vio sull’organo della Salute. Questo materiale ha portato a pubblica conoscenza i documenti relativi allo strumento, a partire dalla gara di appalto fino alla puntuale cronistoria degli interventi successivi, fatti sia dall’autore che da altri, miranti a migliorare lo strumento e anche ad adattarlo ai mutamenti nei gusti fonici che mano a mano si manifestavano negli anni.
La documentazione puntuale di questi interventi, conservata con scrupolo dalla Basilica, ha fornito un aiuto insostituibile per la comprensione del manufatto. E’ raro per il restauratore avere un tale supporto alla sua opera. Nel nostro caso, i confronti hanno prodotto più sorprese di quanto fosse possibile immaginare. Non voglio scendere in dettaglio, ma molte sono state le occasioni in cui le descrizioni dei preventivi di modifica hanno fatto chiarezza sulle attribuzioni e le loro motivazioni. L’attestato di collaudo rilasciato dalla commissione di esperti alla conclusione del lavoro di Dacci costituisce un buon esempio. Esso specifica che lo strumento è stato trovato “il tutto perfetto non solo, ma eziandio con qualche aggiunta di più di quanto si era impegnato con la di lui esibizione». Questa affermazione, ovvero il fatto che Dacci fornì uno strumento un poco più grande di quanto contrattato, è stata puntualmente confermata dall’analisi del manufatto.
Lo studio dello strumento ha evidenziato anche qualche incertezza costruttiva, che ha costretto Dacci a correggere in corso d’opera alcuni aspetti della costruzione. Come dicevo prima, lo strumento, rapportato all’epoca, è di grandi proporzioni, e probabilmente il Dacci, che pur era un trentenne alla data di costruzione dello strumento, e quindi sicuramente dotato già di esperienza, non era avvezzo ad affrontare impianti di questa mole. Questo può spiegare alcuni ripensamenti, dei quali si è dato conto nella pubblicazione.
Un interessante spaccato della situazione organaria in Venezia alla fine del ’700 ce lo dà il confronto fra le varie proposte presentate alla Serenissima per la gara d’appalto. E’ emerso che, uno su tutti, il prezzo per lo strumento di Gaetano Callido era di 1200 ducati, esattamente il doppio di quanto richiesto da Dacci. Altri progetti erano per prezzo e descrizione più simili a quello del Dacci, come ad esempio la proposta di Don Francesco Merlini. Richiesto di ribassare il prezzo, Callido rispose con una riduzione davvero irrisoria. In quel tempo la casa del Callido produceva in media dieci strumenti all’anno se non di più e quindi non era certamente in carenza di richieste di lavoro. Al contrario Dacci doveva soffrire del problema opposto, se per ottenere il lavoro ha accettato di fare ulteriori concessioni, nonostante il suo fosse già il prezzo più basso. E’ utile precisare che, a fronte di un prezzo così basso, non si è in alcun modo constatata una caduta nel livello qualitativo dello strumento, costruito con tecniche e materiali di pregio.
Per quanto riguarda la descrizione del restauro, mi sono limitato agli aspetti che ho ritenuto potessero essere di maggiore interesse, trascurando tutti i dettagli tecnici che normalmente sono contenuti nelle monografie organarie e che inevitabilmente ne rendono la lettura noiosa anche agli esperti. Un aspetto in particolare non ho potuto però non descrivere in qualche dettaglio: quanto è stato fatto per il ripristino del carattere sonoro dello strumento.
L’organo è stato definito con intelligenza “un monumento sonoro”. Ma in assoluto, pensare che si possa con il restauro tornare al suono originario è un’utopia, a causa delle modifiche che i metalli delle canne subiscono nel tempo. Tuttavia, le modifiche di maggiore rilevanza che uno strumento subisce durante la sua storia, per mia esperienza, non sono dovute che in piccola parte al degrado dei metalli ma sono sempre causa dell’intervento dell’uomo. Come accennavo prima, i gusti musicali cambiano, e con essi le richieste degli organisti di “adattare” il suono dello strumento. Fortunatamente oggi questo non avviene più, per la diversa sensibilità verso gli strumenti antichi, ma fino alla metà del secolo scorso gli strumenti, salvo rare eccezioni, erano visti come liberamente adattabili alle esigenze musicali o ad asserite mutate necessità liturgiche, e in questo contesto venivano abbastanza liberamente modificati, sia nell’intonazione, ovvero nel timbro sonoro, che nel metodo di accordatura.
E un’analisi approfondita delle canne ha rivelato come nel nostro organo le modifiche apportate al suono nel corso dei decenni fossero state molte e profonde. Salvo che per alcuni sporadici interventi maldestri, in quasi tutti i casi la spinta alla modifica è derivata dal desiderio di conformare il suono dello strumento ai mutati gusti musicali, sempre più lontani dagli ideali sonori dell’organo classico mano a mano che si procedeva nei secoli XIX e XX. Fino a questo recente lavoro di restauro mai era stato tentato nello strumento un ripristino delle qualità timbriche antiche.
Alla ricerca sulle canne è seguito lo sviluppo di una tecnica nuova, mai prima tentata, reversibile, non invasiva, che ha permesso di cancellare le alterazioni di intonazione, restituendo voci più chiare, argentine, certamente più aderenti agli intendimenti dell’autore. Il metodo è riportato in dettaglio nel libro, assieme ad altri interventi innovativi. E’ questa ricerca del suono antico a mio avviso l’aspetto più affascinante e allo stesso tempo il risultato più evidente del restauro compiuto.
Non ci si deve attendere, dall’organo della Basilica, un suono roboante, maestoso, potente. Lo strumento va “letto” e considerato in rapporto alla sua funzione tradizionale, rivelata anche dalla sua ubicazione, che è quella di sostegno e risposta al coro, con massima attenzione alla qualità, purezza e naturalezza del suono, ciò che rende l’organo classico italiano oggi particolarmente apprezzato in campo internazionale.
Desidero esprimere tutto l’apprezzamento della mia ditta, la Fratelli Ruffatti di Padova della quale sono contitolare assieme a mio fratello Piero, per la sensibilità dimostrata dalla donatrice, la Sig.ra Tamburini, e per la collaborazione e l’impegno profuso dalla Basilica per la realizzazione di questo progetto di restauro. Alla Sig.ra Tamburini dobbiamo anche la sponsorizzazione del libro che oggi presentiamo.
La Prof. Talamini, organista titolare della Basilica, farà ora risaltare alcuni aspetti timbrici di questo gioiello offrendoci una breve dimostrazione sonora basata su musiche originali dell’epoca, inedite e tratte dall’archivio della Basilica. Auguro a tutti un buon ascolto.
Francesco Ruffatti